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Sport a Roma 28 ottobre 2021 Quando gli stadi erano tutti pieni Un Paese che ha perso definitivamente la passione per questo sport? Sembra
passata un’eternità. E forse è vero. Più di un decennio ci separa da quello che
eravamo. Voltarsi indietro e non riconoscersi più in quelle domeniche di stadi
pieni, intrisi di festa e condivisione; come una foto ingiallita dal tempo e
dai cambiamenti frenetici e repentini della modernità. La
gente, purtroppo, non corre più allo stadio. Per tanti motivi, molti dei quali
legati al caro prezzi nelle riaperture degli impianti nell’ultimo mese. Inutile
piangersi addosso però. La responsabilità dei cambiamenti di una società, in
questo caso di uno sport, vengono decisi a volte anche da nostre scelte e
comportamenti. Già, a volte. Perché il lettore potrebbe giustamente obiettare:
cosa c’entro io con i gestori di questo calcio tutto business ed economia,
arricchimento e clientelismo esasperato, che ormai da quasi quindici anni sta
annientando le tradizioni popolari e quindi sociali legate a questo sport?
Domanda lecita. A veder
bene, l’unica risposta che potrei dare è che la responsabilità è di non esser
stati capaci ad opporci a questo “nuovo calcio” quando ancora eravamo in tempo,
quando gli usi e costumi domenicali e aggregativi erano ancora ben saldi e il
tentativo di cambiare, di cambiarci, poteva ancora sembrare un’utopia. Invece è
accaduto, con la nostra totale accettazione. In
molti casi ammaliati dalle luci accecanti di una modernità che fa rima con business
e che ci ha portato a diventare “clienti”, fruitori di un prodotto, e per
questo pronti a goderci lo spettacolo televisivo e amorale di tutto questo
circo; ridendo, dibattendo e discutendo animatamente, ma non rendendoci conto
di essere diventati parte di uno sport vuoto, superficiale, come un reality dai
finti abbracci e dalle gioie effimere. Discutiamo
sull’esigenza di avere stadi nuovi, moderni e, giustamente, accoglienti. Ma
allo stesso tempo dimentichiamo che per decenni quegli stadi li riempivamo di
passioni, di amori e di sofferenze talmente grandi che sono diventate parte di
noi, perché le sentivamo nostre e ci rendevano partecipi del tutto. Lì, in
prima persona, all’interno di stadi anche a quel tempo scomodi, spesso
costretti sotto autentici temporali, stretti l’un l’altro tra ombrelli e
abbracci, assiepati in piedi, seduti, in punta di piedi per riuscire a vedere
almeno un pezzetto di campo tra mille teste. Era scomodo, si, però c’eravamo.
Tutti. Ecco
perché in fondo la colpa è anche un po’ nostra, che abbiamo accettato ogni
cambiamento come fosse oro colato. Ipnotizzati dalle splendide immagini
televisive, dai mille replay, dal contatto “social” con i club. Parliamo di brand,
di bilanci. Forse sbaglio, ci siamo semplicemente rinnovati, aperti al nuovo
modo di intendere lo sport: tanta immagine, poca sostanza. Chiudo
con un ricordo, che suona oggi come un triste presagio. Stagione 1999/2000, in
un Olimpico stracolmo si affrontano Roma e Inter. In Curva Sud, poco prima del
fischio d’inizio, appare uno striscione: “fermate l’industria calcio”. Forse
era già troppo tardi.
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