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Sport a Roma 15 aprile 2020 Musei di sport, musei di vita Riflessione sportiva e culturale nell’emergenza Un tuffo culturale nel vero senso di sport. Proviamo a
staccare per un po’ la spina dalla drammatica emergenza coronavirus. Parliamo
di musei del calcio, avete capito bene. Di quella vecchia e cara passione che
animava un po’ tutti gli appassionati di questo sport dannato. Ma anche colto.
In fondo, forse troppo in fondo. Il J-Museum: la
casa dei ricordi di ogni juventino. Ma non solo. Perché sono tante ormai le
testimonianze di persone di fede calcistica diversa (e opposta) a quella
juventina che hanno visitato nel tempo la mostra permanente di tutti i cimeli
della storia bianconera. E si sono emozionati. Difficile da credere per molti,
abituati alla più bieca e becera rivalità. Il dato è invece importante, fondamentale diremmo,
soprattutto per chi intende il calcio ancora in chiave romantica e quindi
sentimentale, scevra dai falsi ed effimeri stereotipi imposti dal moderno sport
business, che ci indica il modo più “sano” e “conveniente” di vivere il
rapporto con la passione più grande, la più amata. Come se qualcuno ci venisse
a insegnare il modo più giusto di amare una persona, che parole usare, che
gesti fare, quando e come emozionarsi. Nel J-Museum (così come in altre mostre promosse da
alcune società), varcando l’ingresso puoi ritrovare nelle maglie dei tuoi idoli
d’infanzia la tua storia personale, nelle varie sale i racconti di un nonno, di
un padre o di un fratello maggiore. Nelle coppe, foto, ritagli di giornale e
quant’altro, c’è la tua storia, e chi se ne importa se gran parte non l’hai
vissuta in prima persona, ne fai parte quanto chi l’ha vissuta prima di te e ne
farà parte il giovane appassionato che ne visiterà un’altra di mostra, magari tra
vent’anni. Un viaggio nel cuore di ognuno, questo è la storia di
un club, di ogni club. Ed è in fondo di tutti, degli juventini come dei
torinisti, degli interisti come dei milanisti e via citando. In fondo, se ci
pensate bene, anche nelle rivalità più profonde che lo sport ci ha mostrato, si
trova sempre un affetto “nascosto”, d’altronde per “odiare” il nemico devi
anche conoscerlo, avvicinarlo, contrastarlo e allontanarlo, ma per fare tutto
ciò devi creare un legame, che anche se non lo ammetterai mai legherà
indissolubilmente la tua vita sportiva ed emozionale alla sua. Un caso su
tutti: Coppi e Bartali, simboli di un’Italia che ricostruiva se stessa dalle
macerie di una guerra devastante. Rivali per sempre, schivi l’un l’altro,
avevano poco in comune. Eppure l’immagine che li ritrae sui pedali durante il
Tour de France del 1962 è probabilmente la più famosa dello sport italiano:
loro che si passano la famosa borraccia sul passo del Galibier, in una delle
salite più dure del giro francese. L’immagine di un rispetto di fondo e, perché
no, di un affetto reciproco celato e “creato” proprio dalla forte rivalità. È indubbio che un tifoso dell’Inter o del Milan
proverà sempre un numero minore di emozioni al J-Museum rispetto a un tifoso
bianconero. Sarebbe sciocco negare tutto questo, come sarebbe altrettanto
superficiale e permetteteci ottuso considerare una mostra come un qualcosa di
“limitato” nello spazio, seppur coinvolgente, di una sola tifoseria. In fondo,
tentare di condividere le storie e le emozioni degli altri appassionati
dovrebbe essere visto come la ricerca di un arricchimento dell’anima di ogni
sportivo, a prescindere dalle bandiere e dall’appartenenza, e aiuterebbe
probabilmente ad allontanarci sia dalle più stupide divisioni del tifo, sia
dagli insensibili insegnamenti dei gestori di tutto il circo pallonaro. Iniziare a comprendere tutto questo rappresenterebbe
forse un piccolo passo in avanti per far tornare quello che il calcio è stato,
ormai diversi decenni fa, per questo Paese: aggregazione, condivisione e, in
qualche squadra e per alcuni protagonisti, anche insegnamento. Ma forse corriamo troppo avanti. O troppo indietro.
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