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Sport a Roma 12 maggio 2020 La prima Coppa globalizzata Era il 13/07/2014: vinse una nuova Germania. Vinsero i migliori. Non c’è
dubbio. Superiore in tutto la Germania, in quegli storici Mondiali di calcio
brasiliani del 2014. Tedeschi migliori nell’organizzazione di gioco, nella
capacità di dare intensità a ogni istante di gara, fino a sfiancare gli
avversari di turno. Soprattutto però, più bravi a “creare”, a inventare. Sì,
tecnica e fantasia al potere. Nessuno come loro riuscì a
sfruttare appieno le risorse offerte dalla modernità. Abili nel capire per
primi i benefici derivanti dalla globalizzazione insistita dei nostri giorni,
impeccabili nell’inquadrare e organizzare i tratti fondamentali
dell’integrazione a ogni livello, guardandola nell’ottica di arricchimento
umano, culturale e quindi sportivo. Che, inevitabilmente, finì per “invadere”
tutto il movimento calcistico nazionale. Nacquero così i “nuovi tedeschi”, che
mantennero la disciplina a volte maniacale che li contraddistingue da sempre e,
perché no, anche quell’arroganza innata. A questo però, aggiunsero una tecnica
deliziosa, fantasia, imprevedibilità, forse sensibilità. La Germania campione
del mondo 2014 fu tutto questo, specchio di un Paese ricchissimo e al passo con
i tempi, amati o detestati che siano. Fu la Coppa di Ozil, Khedira,
Boateng, di Klose (miglior marcatore della storia dei Mondiali con sedici gol).
Figli di una nuova Germania, di un nuovo mondo. Attenzione però, perché l’integrazione
“calcistica” finì inevitabilmente per modificare anche lo stile di gioco dei
tedeschi “puri”, se ci passate il termine. Figli della stessa scuola, della
stessa organizzazione e anche loro meravigliosamente costretti ad arricchire il
loro bagaglio di conoscenze umane e sportive, per cui anche tecniche. Fiorirono
così i vari Schurrle, Muller, Kroos. Per finire a Gotze, eroe a soli ventidue
anni. E pensare che c’era chi, alla vigilia della semifinale contro il Brasile,
stravinta per zero a sette, mostrava scetticismo sulle parole di
Schweinsteiger: «Il mondo è cambiato, i nuovi brasiliani siamo noi». C’è chi la
prese a ridere. E poi a piangere. Una vittoria meritata quella
della Germania, fin dall’esordio (4-0 al Portogallo) la migliore tra tutte.
Fantastico il lavoro del ct Low, che creò un sistema di gioco armonico e
sistematico, mandato a memoria dai giocatori, che lo ripagarono con la Coppa
più grande. Il modulo? quattro-due-tre-uno o, meglio, quattro-uno-quattro-uno,
quando un centrale di centrocampo avanzava il suo raggio d’azione, creando un
set di trequartisti pieno di genio e piedi buoni, che fu il vero segreto, la vera
variabile che diede imprevedibilità negli ultimi sedici metri. Non mancarono le
novità: Low, fino agli ottavi inclusi, decise per il “falso nueve”, ruolo
ricoperto da uno straordinario Muller, aumentando così l’imprevedibilità negli
attacchi e togliendo punti di riferimento alle difese avversarie, spesso in
balìa degli inserimenti forsennati dei trequartisti. Nei quarti di finale a farne le
spese fu la Francia: uno a zero. Poi, la partita perfetta. Sette gol al Brasile
padrone di casa, al termine di una gara memorabile. Al 29’ già zero a cinque.
Finirà con Hummels che dirà: «Ci siamo fermati, non volevamo infierire
oltremodo». Meno male. Infine, il
trionfo al Maracanà. Gara bella e combattuta, contro un’ottima Argentina. La
decise il giovane Gotze al 112’ con un gioiello, dopo uno splendido assist di
Schurrle, anche lui giovanissimo. Lahm alzò la Coppa. Messi s’inchinò alla
Germania. Alla nuova Germania.
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